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docs/ventura.md
2019-04-11 16:16:11 +02:00

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Non è colpa nostra: ci hanno programmati così, ci hanno cresciuti come signori. Siamo, come ha scritto Luca Ricolfi, una «società signorile di massa»? Può darsi, ma ciò che Ricolfi non ha precisato è che siamo dei signori decaduti, posti di fronte al dramma del declassamento. E tuttavia, proprio come i signori vediamo i rapporti sociali rovesciati dentro la camera oscura dellideologia. Ci vediamo nella parte degli oppressi, ma forse non siamo altro che degli oppressori falliti. Rivendichiamo dei diritti, ma non ci accorgiamo che sono dei privilegi. Militiamo a sinistra, ma il nostro partito è quello dello status quo. Il nostro feticcio si chiama «Cultura»: un ingegnoso espediente che serve a esternalizzare sullintera società, con finanziamenti e sovvenzioni, il costo dei consumi posizionali di una specifica classe. Leggere un buon libro? Cultura. Riempirci la casa di preziosi soprammobili? Cultura. Ascoltare unorchestra di cinquanta elementi, seduti in uno splendido palazzo ottocentesco? Cultura. Volare low cost dallaltra parte del mondo? Cultura. Andare al ristorante per gustare languilla marinata tradizionale delle Valli di Comacchio, con lapprovazione di Carlo Petrini? Ancora Cultura. Quanta ideologia in una sola parola, e quanta astuzia in questo stratagemma! Ricordiamoci soprattutto di specificare che «non è un lusso», perché potrebbe sembrarlo. Insistiamo perché i nostri consumi culturali costino meno possibile, se possibile a spese della collettività anche se, di fatto, ne siamo gli unici beneficiari. Non chiamiamo «consumismo» laccumulazione di prodotti culturali, e non chiamiamoli «prodotti», tralasciamo accuratamente gli effetti ambientali della loro produzione, disprezziamo il marketing, come il marketing ci ha insegnato a fare. E soprattutto lottiamo per difendere i nostri stessi interessi e finanziare con tutte le nostre forze – nostre? – ogni teatro, editore, museo, università, aspirante artista, creatore, scrittore, ricercatore universitario, insomma lintera nostra bella classe disagiata che si rimira nella lente della sua camera oscura. Ma quanto a lungo potremo andare avanti in questo modo? È bello salire sul carro degli sconfitti, degli oppressi, degli sfruttati. È comodo proclamarsi operai cognitivi e unirsi alla lotta del proletariato internazionale contro il capitalismo. Tutto, pur di non ammettere che in prima linea tra le file dei «nemici del popolo» potremmo esserci noi stessi: intellettuali e pseudointellettuali, artisti della domenica full time, scribacchini e burocrati della cultura. Noi, che viviamo con salari ridicoli? Noi, spesso disoccupati, semi-occupati, flexi-occupati – noi, davvero? Sì, proprio noi: da sempre allacciati alla canna del plusvalore e oggi tormentati dalla sete perché il getto si affievolisce, si disperde in mille rivoli, non basta più. Classe agiata con sempre meno prospettive, insomma classe disagiata. La presunta tragedia dei proletari cognitivi è in verità una tragedia della borghesia: una classe ricca, ma non ricca abbastanza. Ricca per studiare e acculturarsi, spesso male, ma non abbastanza per condurre quella vita che si era convinta di meritare.

Leroina del romanzo di Gustave Flaubert, frustrata da un matrimonio mediocre e intossicata dalle troppe letture di romanzi, ha dato il nome a una specifica patologia sociale: il bovarismo. «Madame Bovary, cest moi», potrebbe proclamare la classe disagiata, che ha fatto del consumo culturale la liturgia del suo culto laico della salvezza. Il bovarismo è il totalitarismo dolce del nostro tempo.